Sul palcoscenico ci sono un uomo e una donna, senza nome, senza figli. Non parlano fra di loro, entrambi sembrano chiusi in una propria bolla esistenziale. Tuttavia condividono uno spazio casalingo, saturo di tavoli, sedie, lampade, poltrone, pensili, piatti, tovaglie, oggetti di plastica… e una gabbietta con dentro un uccellino. L’uomo e la donna si siedono a tavola, mangiano, bevono, apparecchiano, sparecchiano, leggono, si vestono, si pettinano. Si muovono inconsapevolmente fra le pareti domestiche, come se una routine secolare – ripetitiva, monotona, asfittica – li avesse costretti a svolgere un’esistenza comune senza alcun contatto né vitalità. Su di loro scende, silenziosa e inesorabile, una polvere – portata da chissà quale deserto – che ricorda la neve dei Dubliners di Joyce: qualcosa che “con il suo cadere lieve” accomuna tutte le creature dell’universo, tutti i vivi, tutti i morti.

L’uomo e la donna non parlano mai fra di loro. Il loro silenzio viene accompagnato da una voce fuori campo che crea l’ambiente sonoro dell’intera rappresentazione: a volte sembra commentare il rapporto di coppia, altre volte sembra evocare una storia lontana, altre ancora invece sembra coincidere con i pensieri della donna, tanto da portarla a fare propri (ed esprimere dal vivo) i pensieri della protagonista: Khady Demba